Con regio decreto del 31/10/1806 erano nati i comuni, circondari, distretti e province; quindi il neonato comune di Francavilla in Sinni si vide assegnare tutto il territorio appartenuto alla Certosa.
Il comune, non poteva gestire un territorio così vasto. Per fare cassa, decise di dividere il tutto in grossi appezzamenti di circa 150 tomoli di espansione (50 ettari) e vendere all’asta ai privati.
Naturalmente i ricchi borghesi che poterono accedere all’asta, con pochi soldi si ritrovarono una fortuna.
Per prima cosa tagliarono gli ultimi brandelli di boschi rimasti, continuando le devastanti pratiche di distruzione attuate ovunque sul pianeta.
Poi costruirono in mezzo a questi terreni delle case per i contadini e delle stalle per gli animali, e ricominciarono a fare in piccolo quello che avevano già fatto i monaci ed i feudatari nei secoli precedenti.
Così sorsero le odierne “masserie”: case di campagna per i contadini-mezzadri. I proprietari invece dimoravano in paese e si recavano in campagna solo durante i raccolti ed i lavori più importanti, con semplice funzione di direzione e controllo. Identica sorte ebbe la Certosa con i terreni circostanti.
Fu acquistata da tale Grimaldi insieme ad altri terreni.
Questo appezzamento non fu di grandi dimensioni ma di soli 10 ettari circa, perché era ritenuto un terreno molto avvantaggiato, dato che vi era una sorgente, terreni molto fertili, breve distanza dal paese ed infine vi era una enorme disponibilità di materiali da costruzione: i resti della Certosa.
Era il terreno più ricco di tutto il comune di Francavilla.
II Grimaldi cominciò subito a far coltivare quanto più terreno possibile: furono piantati ulivi, peri, fichi, meli, mandorli, nespoli, giuggioli ed altro; mentre nei chiostri e nei giardini interni alle mura vennero impiantati dei vigneti.
Adiacente al muro della clausura, sul lato Nord, fu edificata la casa per i mezzadri e poco distante altri locali, come stalle e vasche per l’irrigazione.
Presso la sorgente, dove vi era una splendida fontana, si era formato un laghetto, o forse vi era sempre stato.
ln questo vi finirono alcune pietre lavorate che abbellivano la fontana, come dimostrano il rinvenimento di reperti avvenuto in tempi recenti.
Successivamente il laghetto fu riempito dai detriti della Certosa e la fontana fu sostituita con una semplice vasca per l’irrigazione con annesso abbeveratoio per gli animali.
Alla seconda metà del XIX secolo risale il primo aggiornamento del catasto, dove tutta quest’area veniva indicata con le semplici denominazioni di: vigneto; seminativo; pascolo; mentre l’area dei ruderi fu indicata come incolto produttivo.
Da quel momento vennero cancellati tutti i riferimenti ai resti della Certosa, che non vennero infatti riportati sulle carte geografiche dell’epoca e di cui svanì ogni traccia.
Nello stesso periodo furono impiantati tanti frutteti, vigneti ed alberi ornamentali. Di questo ho avuto conferma ricorrendo alla dendrocronologia.
Infatti contando gli anelli di accrescimento annuale di alcuni di questi alberi da frutto ho misurato:
l’età di 119 anni per un enorme pino domestico abbattuto da una nevicata nel 1991,
l’età di 123 anni per un vecchio pero sradicato dal vento nel 1995,
e l’età di 128 anni per un maestoso fico anch’esso sradicato dal vento nel 1998.
Sono così potuto giungere alla conclusione che tutti gli alberi da frutto più antichi sono stati piantati verso il 1872 (come confermato dalla succitata incisione del 1870).
Il Sig. Grimaldi diede in eredità tutta la proprietà ad un figlio illegittimo: Buccino Vincenzo.
A sua volta questi lasciò in eredità la masseria a numerosi figli, che continuarono con estremo accanimento la politica dello sfruttamento sia della terra sia dei mezzadri.
Questo tipo di conduzione della proprietà era una reminiscenza tipicamente feudale. Siamo negli anni ’40 e tutto questo è ricordo a memoria d’uomo.
Anche la famiglia Buccino crebbe economicamente tanto che alcuni componenti si spostarono per vivere presso i centri del potere burocratico-amministrativo.
Oltre alla terra avevano ereditato anche la rudezza nei modi e nella conduzione della proprietà; essi erano sprezzanti verso i coloni tanto che nessuno vi rimaneva a lavorare per più di un anno (giusto il tempo minimo pattuito nel contratto di mezzadria).
Finché, tra i tanti mezzadri che vi arrivarono, giunse, nel 1945, anche mio nonno Giuseppe Fittipaldi con la sua famiglia.
Anch’egli provò così le angherie dei proprietari tanto che allo scadere del contratto voleva andare via. Allora i Buccino cambiarono leggermente le condizioni e così mio nonno rimase anche l’anno successivo.
Egli era un instancabile lavoratore. Cominciò a curare l’azienda, costruì anche degli aratri ed altre attrezzature agricole che i proprietari si erano rifiutati di fornirgli; piantò degli alberi da frutto, allevò con cura tutti gli animali, e la terra fu così generosa che offrì dei raccolti di ortaggi e cereali come non si erano mai avuti.
Davanti a tanta abbondanza i proprietari strabiliavano, ma non vi fu mai una parola di apprezzamento, mai un tono di rispetto.
Continuarono con i loro modi arroganti e presuntuosi, senza mostrare il benché minimo rispetto per l’ambiente e per il valore storico-artistico della Certosa.
Ci sarebbero tanti avvenimenti, tanti aneddoti da raccontare a testimonianza di un siffatto atteggiamento ma mi limiterò a descriverne solo due: uno riguardante lo straripamento dei torrenti in piena, e l’altro il saccheggio permesso del materiale da costruzione prelevato dalla Certosa.
Lo straripamento
Quando i torrenti in piena minacciavano di straripare inizialmente i proprietari non apposero alcun riparo, ignorarono il problema, ed ignorarono anche mio nonno che chiedeva di far costruire degli argini.
Successivamente, quando le acque si avvicinavano sempre più alle case ed alle stalle, i proprietari si limitarono a far costruire un breve argine.
Ma nonostante questo, ogni anno molti terreni fertili andavano perduti.
Mio nonno propose allora di costruire gli argini più a monte per evitare che l’acqua, esondando, non rientrasse più nell’alveo, portando via tutti i fertili terreni spondali. I proprietari replicarono che non avrebbero costruito argini laddove i terreni non erano di loro proprietà.
E l’acqua scese più impietosa di prima. Esondò alcuni metri più a monte, portò via un vigneto, alcuni ulivi ed arrivò davanti alle stalle ed a soli 8 metri dall’abitazione.
I proprietari allora si limitarono a far costruire degli effimeri argini con fascine di ramaglie e tavole di legno legate tra loro, le cosiddette “n’drapanàte” (in italiano: intricate), che non ebbero alcuna efficacia dato che la forza dell’acqua era troppa.
Questo dava modo ai piccoli torrenti di diventare sempre più delle ampie ed aride fiumare non utilizzabili per pascolo, né per coltivazioni.
I saccheggi
Durante questi anni i saccheggi continuarono grazie alla politica dei Buccino.
Essi davano a chi ne aveva bisogno un carico d’asino di pietre e mattoni scalzati dai resti delle pareti della Certosa in cambio di ben 3 giornate lavorative per zappare i vigneti e gli uliveti, infatti l’olio, il vino e la frutta non erano compresi nel contratto di mezzadria.
Così avevano la manodopera a costo zero. Anche una delle macine del mulino finì per essere rotta e riadattata per un portone di una casa in paese.
(L’altra macina era in un punto più inaccessibile, scampò il saccheggio ed ora fa bella mostra davanti casa nostra).
Così si arrivò agli anni ’60 e in quel periodo si verificò un cambiamento economico-sociale di portata nazionale così grande che, per certi aspetti, fu una vera rivoluzione: da quegli anni non si poteva più vivere con l’agricoltura tradizionale.